Il biopatriarca Vito Tarantini è un uomo sulla settantina molto loquace, ma anche molto impegnato, che coltiva vari ortaggi tipici del territorio salentino in diversi appezzamenti tutti posti in provincia di Lecce.
Lo incontriamo in uno di questi terreni, da lui chiamato “lu ciardinu”, dove con la promessa di non fargli perdere molto tempo, si ferma dal lavoro in cui era intento e inizia a raccontarmi la storia delle sue sementi.
Egli ci dona i semi di due varietà di Cucumis melo L., quella tipica leccese, di colore verde scuro, di media taglia e con solchi non pronunciati, l’altra caratteristica di Leverano, più chiara, pelosa e di forma allungata. Egli rinnova queste sementi ogni anno da ormai 40 anni circa, continuando l’opera di conservazione già iniziata dal padre, anch’egli contadino.
L’ordine e la pulizia regna nella campagna e nella rimessa adiacente e mi colpisce soprattutto la razionalizzazione degli spazi, niente è lasciato incolto e nessuno spazio è sprecato.
Ci dice che ieri come adesso, prima della semina, bisognava preparare il terreno, ci si recava nei mesi di ottobre o novembre alle “masserie” vicine e si acquistava il letame, principalmente di cavallo, asino e vacca, e si mescolava al terreno su cui poi si seminava; oggi, grazie all’ausilio dei concimi, non c’è più bisogno di spostarsi. Limitato era l’uso di acqua, addirittura assente nella coltivazione delle “menoncelle” e di altri ortaggi a cui si ovviava con il metodo della “sarchiatura”, cioè zappando molto spesso la terra immediatamente vicina alla pianta.
Ci spiega che la coltura delle “menoncelle” necessita di un terreno “vergine”, cioè un terreno in cui l’anno precedente non è stata piantata e che questa non può essere messa in coltura su terreni in cui poco prima sono stati piantati altri ortaggi, come ad esempio il pomodoro, perché altrimenti il sapore viene alterato e si ottengono frutti amari e poco profumati. Stesso motivo per cui egli non pratica gli innesti di anguria, melone dolce e menoncella su portainnnesti di zucchina, più resistente alle fisiopatie. ” …. sono convinto che le cose naturali sono più buone e non so dove ci porteranno tutti questi esperimenti sulle piante e che effetto avranno sulla salute tutti questi nuovi prodotti. Nessuno ancora lo sa, neppure tutti questi agronomi di adesso, provvederà il tempo a farcelo scoprire.”
Egli effettua due tipologie di coltivazione della “menoncella”: una in campo aperto con tecniche essenzialmente tradizionali, l’altra in serra, ottenendo il prodotto in anticipo rispetto al calendario di coltivazione. In serra, per promuovere l’impollinazione utilizza le api da miele, che tra l’altro producono miele di ottima qualità, unendo in questo modo l’utile al dilettevole.
Continua il suo racconto dei tempi andati dicendo: ”… prima, la giornata per chi lavorava in campagna era molto lunga, si lavorava dalla mattina alla sera; a pranzo, soprattutto in estate, si mangiava “un cazzotto” di pane duro bagnato in acqua accomp agnato con la “menoncella”, il melone e l’anguria, un pasto che non saziava tanto, ma almeno dissetava”.
Il tempo è passato in fretta e pur avendogli promesso di non fargliene perdere tanto ci guarda e dice “ormai sono le 11… che posso fare più?!”, ma è soddisfatto dell’interessamento sul suo lavoro che da sempre viene un po’ bistrattato.