Siamo in una campagna del nord Salento, sulla strada extra urbana che collega il piccolo paese di Surbo con la località marina Torre Rinalda, in provincia di Lecce; la prima cosa che colpisce è l’ordine che regna tra le aiuole di gerani rigogliosi ed i filari di ortaggi, tutti precisamente allineati come fossero stati progettati e realizzati da una squadra edile molto scrupolosa.
Al nostro arrivo il lavoro si ferma ed il signor Enzo Sava comincia a raccontare di quel suo modesto appezzamento, a conduzione familiare, e dei prodotti, tutti coltivati secondo tecniche tradizionali, che vengono venduti in un piccolo punto vendita in paese. Fatto il giuramento di non dare a nessuno i suoi semi, lo seguiamo in un piccolo vano rurale, utilizzato come deposito, in cui conserva parte dei suoi raccolti e relative sementi: una piccola banca del germoplasma, frutto di una paziente e scrupolosa selezione iniziata da suo padre.
Nel porgerci la semente di Cucumis melo L., che da queste parti viene chiamata “menunceddhra”, ci assicura che si tratta di quella originale, “quiddhra leccese, … cu ni capimu! – mi dice con tono fermo e deciso – … relativamente piccola, di un verde intenso con un leggero strato di pelo superficiale, molto croccante, profumatissima e soprattutto la più saporita tra tutte le “menunceddre” che si posso assaggiare”.
Con un po’ di rimpianto e con la consapevolezza del tempo passato ripercorre la sua storia nei campi : “ … quando ero ragazzo, si usava arare il campo con il cavallo, unico aiuto alla forza e fatica umana. Non esistevano teli pacciamanti, unica compagna la zappa e non c’erano sistemi di irrigazione ma ci si affidava alla buona volontà del Signore”.
“La scelta della coltura da impiantare – continua – dipendeva dal numero di figli, infatti noi non coltivavamo il tabacco perché bisognava essere in tanti e la manodopera solo i ricchi signori potevano permettersela”.
Allora, come adesso, si facevano i filari e si disponevano i semi in piccole buche disposte ad una certa distanza una dall’altra fatte con “lu chiantaturu” (foraterra, uno strumento in legno, corto, a forma di cuneo, con l’impugnatura arrotondata e la punta affusolata). “Le aree coltivate con specie diverse erano separate una dall’altra da strisce di terra coltivate con saggina, pianta con la quale si realizzavano un tempo le scope. Durante il periodo della raccolta si costruiva sul campo una sorta di piccola capanna, la pagghiara, nella quale si trascorreva la notte per impedire che il raccolto venisse rubato”.
Ci dà qualche consiglio su come coltivare la “menoncella” e ci raccomanda di raccoglierla quando raggiunge una grandezza media perché sia più croccante, quando ingrossa troppo diventa gommosa.
“Dopo tre anni al massimo vanno rinnovati i semi, perché altrimenti non germogliano più, prendendoli dal primo frutto che si lascia maturare sulla pianta“.
A proposito della “gelosia” tra coltivatori nei riguardi della propria semente, ci racconta un episodio curioso capitatogli diversi anni fa: ” Avevo notato, nel campo di un altro contadino, delle belle varietà di un ortaggio che però non ricordo più quale fosse. Incontratomi con “l’amico” contadino, gli ho chiesto un po’ di quei semi e questo con grande generosità me li ha dati. Quando però li ho seminati e sono cresciute le piante, ho scoperto che l’amico non mi aveva fornito la semente giusta, perchè la varietà era addirittura peggiore di quella che già possedevo. Mai fidarsi di nessuno, … soprattutto dei contadini!” dice scherzando.