Ci sono alberi che amo piú di altri

Ci sono alberi che amo più di altri.

I grandi pini che si affacciano generosi sulla costa rocciosa del Gargano, gli ulivi secolari che si stagliano solenni sotto il sole, i rassicuranti e umili carrubi… Ne ricordo di enormi, nella campagna dei nonni, dalle grandi ombre ricche di piccole foglie verdi e di carrube.
A volte, nel tempo, se si è fortunati, questi alberi fruscianti e dignitosi regalano un grande e bellissimo fungo.
Un fungo sul carrubo è davvero un dono raro e prezioso.
Quando hai la fortuna di trovarlo non devi perderlo di vista ma regalargli tempo, acqua e affettuosa cura.
Potrai tenerlo al riparo da occhi indiscreti con un piccolo recinto di legnetti e foglie e, innaffiandolo regolarmente, aspettare che cresca. Ci metterà poco a diventare grande.
E dovrai fare tutto in gran segreto, perché se qualcun altro lo scopre rischierai di perderlo e di privarti di una esperienza unica di forme, colori, sapore…

Un pomeriggio, andando a prendere la corriera che da Torre a Mare, in contrada Torricella, doveva portarlo a Mola, nonno Peppino si fermò presso un grande carrubo per dare acqua a un fungo che cresceva sul tronco. Gli aveva costruito una piccola palizzata torno torno e lo accudiva quotidianamente in attesa di raccoglierlo. Il fungo cresceva a vista d’occhio, e diventava molto più grande di tutti i funghi che conoscevo esibendo dei colori delicati dal giallo pallido al rosa, mai visti prima.
Da quando l’aveva scoperto nonno Peppino non pensava ad altro, e si avvertiva, quando ne parlava con la nonna, che lo stava assaporando già prima di mangiarlo.
“Mi raccomando Rosein un poco lo facciamo al sugo, che è meglio della carne, e un poco me lo fai con le patate.”
Spesso all’imbrunire mi portava con se presso il carrubo e ne stimava ad alta voce la crescita facendo previsioni sul peso che avrebbe raggiunto (era già sul chilogrammo abbondante) e sui tanti modi in cui nonna Rosa lo avrebbe cucinato.
Mi parlava della fortuna cha aveva avuto a trovare quel fungo sul carrubo.
Che era una prelibatezza che nemmeno Stalin aveva mai assaggiato, e che se lo avessimo invitato a mangiarne non sarebbe andato più via da Mola.

Mio nonno era fissato con Stalin e lo nominava più volte al giorno infilandolo nei discorsi più vari, comprese le imprecazioni minori.
Non parlava mai, invece, del regime appena passato con il quale aveva avuto problemi per via delle decime sul raccolto che si rifiutava di riconoscergli e che più di una volta l’avevano fatto finire in caserma, e per altro.
Ma mio nonno era di pelo rosso, e per mia nonna questa peculiarità bastava a giustificarne l’atteggiamento ribelle e la sua tendenza ad accendersi repentinamente per qualsiasi cosa e a farsela passare con la stessa velocità.

Quel pomeriggio il nonno non prese la corriera. Lo vedemmo tornare dopo poco, completamente stravolto, e il fatto che inserisse Stalin in imprecazioni maggiori ci fece subito temere qualcosa di grave al punto che la nonna cominciò ad agitarsi tutta e dopo essersi raccomandata a tutte le anime del Purgatorio, che per la nonna valevano più che Stalin per il nonno, iniziò a corrergli dietro campagna campagna, urlando preoccupata: “Peppí’, cia’ succiss…, Peppi’ statt calm .., Nn m’ se facenn preoccup’…”
Lentamente mi incamminai lungo il viottolo che portava al carrubo.
Il piccolo recinto sul tronco era vuoto, a parte piccole parti di gambo che nella fretta, chi aveva reciso il fungo, non aveva asportato con cura. Sparite le creste frastagliate, spariti i bellissimi colori. Sparito il pranzo succulento che tutti aspettavamo e il piatto che il nonno pregustava per sè.
L’assenza del fungo mi colpì quasi quanto aveva colpito il nonno.
Una mancanza forte che prendeva al petto.
Tutto pareva più triste e buio rispetto al breve tempo in cui quell’umile fungo sul carrubo aveva illuminato il nostro piccolo pezzo di campagna.
Il nonno ci mise un paio di giorni a ritornare sereno, e non lo sentii mai più nominare il fungo.
Quando percorrendo il viottolo arrivava in prossimità del carrubo tirava dritto, senza guardare.
Il piccolo recinto lo smontò la nonna, donna schiva e silenziosa, mentre mi raccontava di quanto era buono il fungo del carrubo, che non si trovava tanto facilmente e che non sapeva di fungo e faceva un sugo più saporito di quello di carne. E di quanto piacesse al nonno, e della cura che ci aveva messo per farlo crescere. E di quanto fosse dispiaciuta per lui e di come mi sarebbe piaciuto se l’avessi assaggiato.
Io non ho più visto un fungo così bello, ma in famiglia, la storia di nonno Peppino e del fungo sul carrubo ha lasciato una traccia indelebile nei nipoti più grandi di età, e viene tirata fuori ogni qual volta si parla di parenti o amici che esagerano in attenzioni verso qualcosa o qualcuno.

“Qui va a finire come a nonno Peppino e il fungo sul carrubo”.

E abbiamo detto tutto.

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