È arrivata di domenica. Tra le mani di mia figlia sfinita da 8 ore di lavoro ma sorridente per il dono che recava. Lo nascondeva dietro la schiena, come quando si vuol fare una sorpresa a un bambino.
Ci vuol poco a farmi contenta. E mia figlia lo sa. E una patata a forma di cuore è davvero un gran regalo. Uno di quelli che a volerli comprare non si trovano. Uno di quelli che solo un cuore di figlia può tenere da parte per te.
Un cuor di patata o una patata a forma di cuore?
Un cuor di patata, sicuramente.
Perché la patata è una verdura docile, dal buon carattere, che sa trattare con grandi e piccini. E se la intende alla grande con le altre verdure. Protagonista indiscussa di piatti apprezzati in ogni paese, la si può accostare, gastronomicamente parlando, quasi a tutto. E dal buon cuore che ha si presta spesso a rinforzare minestre di verdure, a legare zuppe, ad ammorbidire passati di legumi, a rendere più soffici e leggere torte e focacce.
Nella mia dispensa capita spesso che non ci siano sedano o carote o qualsiasi altra verdura, ma molto raramente mancano le patate.
Patate fritte, patate al forno, purea di patate, crocchette di patate, pizza di patate, gnocchi di patate, zeppole di patate…
Nella mia famiglia ne facciamo un uso sfrenato essendo l’unico ortaggio che mette tutti d’accordo, ma, preferenze a parte, alla patata è legato anche un mio bellissimo ricordo di bambina…
D’inverno, a casa dei miei nonni paterni, di pomeriggio ci si raccoglieva con i cugini intorno a un grande braciere, i piedi poggiati sul cerchio di legno, a chiacchierare e scambiare notizie di parenti lontani.
Le luci della strada si allungavano sempre più attraverso i vetri e, mentre dal mio posticino al caldo guardavo passare la gente per strada, al calore della carbonella, sotto la cenere, le patate cuocevano lentamente.
Per averle belle tenere ci volevano quasi due ore. Ogni tanto qualcuna scoppiettava e una delle cugine più grandi veniva a controllarne la cottura e ad aggiungere cipolle, piccoli pomodori e fave secche con la buccia.
Mentre il calore inteneriva le patate, le fave diventavano belle croccanti.
La fave erano le mie preferite. Mi piaceva prenderle direttamente dalla cenere allargata, anche se a volte mi bruciacchiavo un po’ la punta delle dita mentre le strofinavo per far cadere la buccia prima di gustarle.
Noi bimbi ce le passavamo l’un l’altro, tra risa e piccole grida, perché scottavano e non riuscivamo a tenerle in mano.
Le poggiavamo in grembo, e sventolando le mani arrossate dal calore, ci soffiavamo sopra per farle freddare.
Una volta cotte, le patate ormai morbide, insieme alle cipolle a ai pomodorini dalla tenera buccia appassita, venivano pulite ben bene dalla cenere e a seconda della dimensione, intere o divise a metà, insaporite con olio e sale.
Passarsi il piatto di poche semplici verdure accompagnate con pezzetti di pane era un rito familiare bellissimo che accomunava intorno al braciere varie generazioni. Dai bambini piccolissimi ai genitori, agli zii, ai nonni, ai bisnonni a volte.
Quelle patate cotte sotto la cenere avevano il sapore dell’attesa e del tempo che passa nella maniera giusta; ne’ troppo lentamente, ne’ troppo in fretta, e contribuivano ad arricchire, con il loro, un calore che scaldava il corpo e arrivava dritto al cuore.
La patata è rimasta nella mia cucina un po’ di giorni, in attesa di essere trasformata o accompagnata ad altre verdure. Ma proprio non ce l’ho fatta a toglierle quella forma di cuore. Ho pensato che il destino di un cuor di patata non poteva essere quello di tante altre patate e l’ho passata a un mio amico, augurandomi che avesse in serbo per lei una conclusione di vita migliore di quella a cui l’aveva sottratta mia figlia portandola con sé.

Grazie per questa lettura, Antonella, la curiosità mi spinge a chiederne un prosieguo; sarebbe bello sapere che cosa ne é stato del cuor di patata e cosa ne ha fatto l’amico a cui l’hai affidata. Immagino sia un artista che rispetta la natura delle cose, qualcuno che le rende “immortali”. Il tuo blog è bellissimo