Proseguendo nelle ricerche documentali sulle varietà di finocchio pugliesi, presso l’archivio del prof. Vito V. Bianco (conservato nella biblioteca del DISAAT dell’Università di Bari) sono stati ritrovati due interessanti articoli scritti dal prof. Vittorio Dellacecca, che negli anni Sessanta svolgeva il ruolo di tecnico presso la Facoltà di Agraria di Bari. Il primo articolo è intitolato ‘Prove di concimazione del finocchio’, pubblicato negli atti della Conferenza Nazionale per l’Ortoflorofrutticoltura tenutasi a Napoli nel 1967; il secondo, invece, è intitolato ‘Influenza di alcune tecniche colturali su resa e qualità del finocchio’, pubblicato sulla Rivista di Agronomia nel 1969.
Negli anni Sessanta era prevalente il ricorso a seme riprodotto in azienda
In entrambi gli articoli, Dellacecca documenta l’importanza del finocchio per l’orticoltura pugliese degli anni Sessanta, in particolare negli areali litoranei, dagli arenili di Zapponeta e Margherita di Savoia, nella provincia di Foggia, passando per Barletta, Molfetta, Mola, Polignano e Monopoli, in quella di Bari, ed infine nella zona di Otranto, per quella di Lecce. La superficie coltivata nel 1965 aveva raggiunto i 2.250 ha e la produzione le 47.000 t, con una costante tendenza alla crescita.

Negli anni sessanta le principali provincie pugliesi in cui era coltivato il finocchio erano Foggia, Bari e Lecce (Dellacecca, 1967).
L’autore riferisce, tuttavia, di forti limitazioni alla coltivazione della coltura dovute, da un lato, a una progressiva riduzione della disponibilità di manodopera, dall’altro, all’eccessiva presenza di ‘scarto’ commerciale in campo, che dipendeva sia da fattori di natura genetica sia dalla tecnica colturale. In particolare, l’autore riferisce che in quegli anni la coltivazione in Puglia era legata a un uso prevalente di seme riprodotto in azienda, ma che l’assenza di programmi di miglioramento genetico della coltura e di un’attenta selezione delle piante madri da parte degli orticoltori, contribuivano ad aumentare alcuni ‘difetti’ del grumolo delle varietà locali, che potava presentarsi aperto, per precoce sviluppo ascellare, o allungato e piatto con guaine sottili, o doppio, o piccolo con fenditure longitudinali. Secondo l’autore attraverso un’attenta selezione delle piante madri era possibile ridurre in misura considerevole incidenza di questi difetti e di conseguenza lo scarto delle produzioni.

Talora le popolazioni locali di finocchio presentavano un’eccessiva variabilità e difetti nella forma del grumolo, sopratutto in assenza di un’attenta selezione delle piante madri (Dellacecca, 1967).

Esempio di grumoli di finocchio ‘locale barese’ di diversa forma a causa di fattori genetici e colturali (Dellacecca, 1969).
Gli articoli documentano l’impiego di cultivar di finocchio ‘locale barese’
L’autore riferisce di prove sperimentali condotte in quegli anni a Bari proprio allo scopo di migliorare la qualità commerciale del finocchio, attraverso la verifica dell’influenza di alcune tecniche colturali (trapianto, densità di semina, concimazioni, ecc.) sulla forma e pezzatura del grumolo. In tutte le prove erano impiegate cultivar di finocchio ‘locale barese’, probabilmente acquisite grazie alla disponibilità di alcuni orticoltori locali. In entrambi gli articoli, tuttavia, non è specificato se si trattasse della forma ‘nostrale’ o del ‘gigante’, che sappiamo essere state le due principali tipologie di finocchio presenti in Puglia in quegli anni, e delle quali il progetto BiodiverSO è riuscito a recuperare alcune accessioni grazie ad alcuni alcuni agricoltori custodi.

Nella tabella è documentato il ricorso a cultivar di finocchio ‘locale barese’ in prove del 1958-59 e del 1964-65 (Dellacecca, 1967).

Effetto del livello di concimazione azotata sulla pezzatura dei grumoli di finocchio ‘locale barese’ (Dellacecca, 1967).
A cura della cooperativa AGRIS