Se Vincent, invece di andare in Olanda fosse capitato dalle nostre parti, probabilmente, il magnifico dipinto “I mangiatori di patate”, capolavoro conclusivo del suo periodo olandese, sarebbe diventato “i mangiatori di cicorie e fave” e, al posto di quei semplici ma preziosi tuberi, avrebbe ritratto cicorie fumanti accompagnate da fave, in un capace piatto “spaso” di locale terracotta.
E magari, avrebbe inserito anche del vino, sostituendo con questo la bevanda a base di orzo che una donna solerte dispensava nell’originale atmosfera olandese, e completato il tutto con una piccola forma di pane, per accompagnare il pasto e concluderlo, in una lenta e accurata ripassata con l’ultimo pezzetto rimasto, a raccogliere ciò che sarebbe stato indecoroso per la sacralità che il cibo aveva un tempo, lasciare nel piatto.
Van Gogh avrebbe trasferito su tela una gustosa “scarpetta”, consumata sul fondo di un piatto di fave e cicorie, per realizzare il capolavoro del suo ipotetico periodo pugliese, probabilmente non conclusivo, poiché, un posto sì povero, ma che ti offre del cibo così buono, non ti lascia andare via tanto facilmente.
E sarebbero state, le cicorie dipinte, sicuramente selvatiche, caratterizzate da un lieve retrogusto amarognolo. Le più gustose, che i contadini raccoglievano insieme ad altre erbe di campo e che oggi, se non sei sicura dei posti in cui raccoglierle, sempre più scarsi e inquinati, ti conviene non farti venire in mente neanche il desiderio di provarci.
E in quelle cicorielle, ci avresti trovato, una volta cotte anche un lieve sentore di finocchietto selvatico, pochi steli, a spezzare leggermente l’amaro, già in parte lasciato in acqua.
E le fave, sarebbero state di quelle un po’ piccoline, scelte e decorticate a suo tempo passandoci sopra una pietra ad infrangerne la scorza scura, e, liberate da questa, conservate, ben chiuse in un recipiente di vetro.
Le avremmo prese nella quantità necessaria e tenute “a bagno” coperte di acqua, insieme a una foglia di alloro, per una notte, “iend ù pignatidd”, panciuto recipiente in terracotta, con su un lato due manici curvi.
Il mattino seguente, di prim’ora in un punto adatto del camino, avrebbero ricevuto una cottura lenta e continua.
Al primo bollore saremmo state attente ad eliminare la schiuma bianca appena formata, e appena tenere le fave, eliminata la foglia di alloro, avremmo lavorato di polso mescolandole continuamente dal basso verso l’alto con un cucchiaio di legno, per trasformarle in un composto morbido e cremoso.
Regolate di sale, sempre continuando a mescolare, le avremmo arricchite della desiderata quantità di olio dei nostri olivi.
Solo allora, trasformate in morbida, corposa crema, sarebbero state pronte a raggiungere nel piatto le cicorie appena tirate fuori dall’acqua di cottura, per ricevere insieme, un ultimo giro di olio e, accompagnate dalla fragranza del pane appena sfornato, realizzare il miracolo di un pasto allo stesso tempo semplice e sontuoso, che si è guadagnato, nel tempo, per l’immenso sapore che sprigiona unito al beneficio che apporta alla salute, l’onore di varcare gli umili confini delle terre in cui è nato per essere celebrato sulle tavole di ristoratori sapienti, famosi in tutto il mondo.
Se Vincent, invece di andare in Olanda fosse capitato in Puglia, avrebbe rinunciato anche all’atmosfera leggermente cupa che avvolge il suo capolavoro conclusivo del periodo olandese, perché, non me ne vogliano le patate, l’energia positiva sprigionata da quel pasto di fave e cicorie non avrebbe potuto essere trattenuta all’interno di un piatto, seppur capiente di terracotta, ma avrebbe allontanato la fame e la stanchezza, e accompagnata a un buon sorso di vino, illuminato di verde e d’oro l’ambiente tutto, trasformando per quel piccolo tempo di ristoro, una semplice tavola di gente che lavora la terra in una mensa da re.