Ecco un’importantissima testimonianza sull’utilizzo del “tortarello”, un tipo di melone immaturo, nel sud Italia già nel V sec. a.C.
Il passaggio storico da un’economia di caccia e raccolta ad un’economia agricola e pastorale ha simboleggiato, per i popoli dell’antichità, un momento di rottura da uno stato “selvatico” (nomade, organizzato in piccoli gruppi, con delle risorse alimentari limitate) a quello “civile” (sedentario, in continua espansione demografica, capace di creare sistemi sociali e culturali complessi).
Con l’agricoltura, l’uomo ha cominciato a creare il suo cibo, emancipandosi dallo stato selvatico e differenziandosi dagli animali.
Il cibo da questo momento viene prodotto artificialmente tramite lunghi e complessi processi: un esempio è il pane, emblema e simbolo per eccellenza – in area mediterranea – della civiltà, il cui utilizzo segna il confine tra natura e cultura, tra barbaro e civilizzato.
Tuttavia, la nascita dell’agricoltura è ricordata nelle mitologie di molti popoli come un gesto di violenza compiuto contro la Madre Terra, ferita dall’aratro, aggredita dai lavori nei campi. Da questo concetto sono scaturiti i rituali di fecondità, che avevano, tra gli altri compiti simbolici, anche quello di espiare una colpa collettiva.
Nell’antichità la protezione dei campi, dei lavori agricoli e dei prodotti della terra era affidata a numerose entità tutelari, maggiori e minori, con competenze specifiche o più generiche. A queste venivano offerte primizie e, più in generale, cibo. L’atto di “dare” in dono alla divinità doveva determinare un “avere” nel momento del raccolto. Talora riproduzioni in terracotta prendevano il posto di offerte deperibili. Questo ha reso possibile che alcune testimonianze di queste pratiche rituali giungessero fino ai giorni nostri.
Nell’immagine riportata sono rappresentati melagrane, capsule di papavero e un tortarello, custoditi presso il Museo Archeologico di Taranto. Sul sito www.beniculturali.it, in un approfondimento sull’alimentazione nell’Italia Antica, leggiamo:
«Fonti antiche (Plinio) documentano in particolare per il Bruttium, la coltivazione e l’uso alimentare del cavolo. Per la Calabria erano noti i “cavoli bruttini”, dotati di grandi foglie, fusto sottile e sapore molto acuto. Alcune specie vegetali sono documentate dalla coroplastica rinvenuta soprattutto nelle stipi votive di Locri e delle sue subcolonie, Medma (attuale Rosarno) e Hipponion (attuale Vibo Valentia) come: i “tortarelli” verdi, e le capsule di papavero; la prima specie corrisponde ad una varietà di melone diffuso in tutta la Magna Grecia (Policoro, Taranto), ma anche in altri siti del bacino del Mediterraneo (Olinto, Argo) il cui gusto ricorda quello del cetriolo; le capsule di papavero erano utilizzate per estrarre l’oppium, il succo che si forma all’interno della capsula; il suo uso era soprattutto farmaceutico, come sedativo ed analgesico, mentre i chicchi erano utilizzati come alimento; il poeta Alcmane menziona dei pani ricoperti di grani di papavero (l’uso di decorare il pane è rimasto nell’Italia meridionale in Sicilia e Puglia) che venivano utilizzati anche per decorare i dolci.»
Frutta e verdura ricoprivano anche un importante ruolo simbolico: basti pensare alla melagrana, simbolo di regalità e di fecondità, attributo di molto dee telluriche. Lo stesso vale per il papavero, attributo di Cerere/Demetra, rappresentato anche in alcune statuette minoiche sul capo di una dea con le braccia levate verso il cielo.
Il tortarello potrebbe essere invece legato alla fecondità maschile, come molti vegetali lungiformi.
In ogni caso è un’importantissima testimonianza dell’utilizzo di questa varietà in una vasta area del sud Italia già nel V sec. a.C.
Per approfondire: http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/approfondimenti/articoli/bruttium.html