Ritornare a parlare di Puglia dalla Bolivia non è affatto facile. Questa terra in cui sto avendo la fortuna di vivere è affascinante e ricca di energia e di tradizioni, splendida nelle sue mille contraddizioni e selvaggia nella sua natura. La terra che ho lasciato, la Puglia, è invece in un processo di cambiamento che seguo con piacere a distanza. E non è facile parlarne perché, in un certo senso, una parte di me, vuole essere lì per dare il suo contributo.
E quando il contributo al cambiamento viene dal basso, dalle idee di giovani e dalle associazioni sul territorio, il cambiamento è reale e ha buone possibilità di attecchire.
Quando poi il cambiamento passa dai campi e dalla biodiversità, dalle varietà locali, bè, allora e tutta un’altra storia. Un’altra storia come quella degli amici del Circolo ARCI Club Gallery.
Il circolo ARCI di Aradeo nasce nel 2011 con l’idea di promuovere il consumo critico e di creare uno spazio di condivisione di idee e passioni per la gente e per i giovani. Uno spazio creato con fatica e con materiale di riciclo, in cui si organizzano moltissime attività: da cineforum a presentazione libri a corsi di italiano per stranieri. Le tante attività si concentrano per realizzare un sogno: quello di creare lavoro nel rispetto dell’identità salentina. E così Roberta e i suoi amici mi raccontano che Aradeo ha avuto una società di mutuo soccorso e una banca agricola e una cantina sociale. Dove è finito tutto questo? Dov’è la gente che fa del campo la sua vita e la sua passione e che comunitariamente si appoggia e si aiuta?
Pochi sono coloro che rimangono; chi rimane si arrangia e la vita agricola comunitaria non è che ricordo di qualche anziano del paese.
“…torno nei campi, perché le piazze sono piene, ma le terre vuote”.
Da questa frase di Massimo Colizzi, artista e fondatore del circolo, nasce Karadrà, un progetto salentino di agricoltura multifunzionale. E l’idea è quella di coltivare la terra con le tecniche tradizionali di aridocoltura senza mai perdere di vista l’innovazione. E questa voglia di rispondere ai bisogni primordiali di ognuno di loro li ha portati a quella terra battuta dal sole e dal vento, ai muretti a secco, agli ulivi secolari e ai mandorli, che, come per magia, ritornano a vivere e a prendere colore come una tela in mano ad artisti ispirati.
Perché, come sanno chi segue questo blog, l’agricoltura non è solo produzione: è passione, speranza, incontro, scambio… È di questi aspetti positivi che mi piace parlare. È di queste storie che abbiamo bisogno, di gente che ci crede, che lavora e si impegna per costruire un mondo migliore e per mettere a disposizione di una comunità i loro valori e ideali. E aggiungo: poco importa se sarà un successo. Lo sarà sicuramente e ne sono certo. È che oggi, disillusi come siamo, le speranze di Karadrà sono quelle di ognuno di noi; di gruppi di amici che sognano uno stile di vita differente; di giovani che, come marinai in panico, fanno fatica a trovare una terra su cui approdare; a tanti che si lamentano e non vedono la meraviglia dei campi che li circondano; a quegli anziani, tanti, che con i loro ricordi e le loro vite possono ritornare ad essere utili e protagonisti dello sviluppo di un territorio riscoprendo quei “segreti” e quelle tradizioni che ahinoi, stiamo perdendo.
E da qui la coltivazione delle Pende in un sistema tradizionale che prevede la consociazione di questo pomodoro di inverno, con legumi e olivo. Le Pende sono pomodori gialli d’inverno coltivati in aridocoltura. Le bacche arrivano ad assumere tutti i toni del giallo e dell’arancio, senza mai diventare rosse. L’assenza di acqua nella fase di crescita e sviluppo della pianta favorisce la lunga conservazione di questi pomodori, mantenendo inalterate le sue proprietà organolettiche (buccia spessa, polpa succosa e tanti semi) anche per un anno. Le bacche vengono raccolte a completa maturazione, recidendo i grappoli con le forbici, e conservate in reste appese in vecchi fabbricati strumentali in disuso, ben arieggiati, oppure tenuti in ariosi atri porticati. Talvolta vengono appese sui “tiraletti”, dove un tempo si appendevano le foglie di tabacco per l’essiccazione. Tipica dell’entroterra salentino, questa varietà, fuori da ogni mercato e produzione industriale, giunge a noi grazie alle sapienti mani dei contadini custodi e di questi ragazzi.
Da due anni il lavoro nei campi è continuo con la bonifica e il ripristino del Vecchio Fondo Cafazza (3 ha + caseggiato rurale) e la ricerca di terreni incolti (purtroppo tanti) e abbandonati. Il sogno è la cooperativa. La sfida quella di dimostrare che il lavoro si crea a partire dai sogni, senza dimenticare che il cibo serve al corpo, come l’arte serve all’anima.
Ed ecco qui ognuno di loro, i protagonisti e gli sceneggiatori delle loro vite e dei loro ideali, che si descrivono:
Massimo Colizzi, creativo. Un eclettico che ha fatto scelte dure che lo hanno portato a tante rinunce, ma incontro alla vita che vorrebbe raccontare al figlio. La sua idea di materiali lo porta a scegliere contro tempo e prima del tempo di fare arte e di farla con scarti di altro e altri, per ridare valore non solo alle cose ma anche all’opera umana. Lui che per mezza giornata restaura affreschi e per l’altra metà lavora volontario nei nostri campi.
E poi Giulia Carlino, sociologa, che ascoltando storie di migranti della terra capisce che l’integrazione può avvenire se si è stanziali e non nomadi, che per diventare tali bisogna poter costruire una vita in un luogo e che questo passa solo per il lavoro.
E Piero Tudisco, che con il suo lavoro ha girato e gira il mondo e si chiede da sempre perché bisogna andar via se qua c’è tutto, i suoi occhi riconoscono le risorse e le sue mani hanno la forza di costruire.
E Vittorio Mighali che di quelle vigne, là perse, conosce il nome e il pensiero e a loro vorrebbe dare il suo tempo.
Ed Enrica Chezzi che da madre si domanda cosa del suo mondo rimarrà a suo figlio, i suoi occhi di fotografa vedono la terra giorno dopo giorno deperire.
E Roberto Tramacere che, vivendo l’incertezza e la polvere dei cantieri, vuole per sé un lavoro a contatto con la natura.
E Lorenzo Giaracuni che, dopo dieci anni di lavoro in fabbrica lontano da casa, decide di tornare per ricominciare da zero.
E Roberta Bruno, che decide di tornare indietro dall’Emilia delle Cooperative, con il sogno che il lavoro tutto, anche quello dei campi, non sia più sacrificio ma libera e consapevole scelta.
E Tiziana Resta tecnologa per la conservazione e il restauro dei beni culturali, che dopo 13 anni d’assenza torna in questa terra decisa a valorizzarne le sue molte bellezze.
Perché un artista, una sociologa, un bracciante agricolo, un decoratore edile, una fotografa, un’impiegata della motorizzazione svizzera, un’organizzatrice, un tour manager, un perito meccanico e un sommelier sarebbero idonei a creare una cooperativa agricola?
Il perché lo raccontano loro, lasciando per intero una bozza che loro mi hanno inviato per questo articolo. Non ho cambiato una parola, una virgola né un accento. Ideali e motivazione che condivido in pieno e che spero, condividiate anche voi lettori del blog.
E a loro quindi la parola. Perché ritornare alla terra?

Perché è la terra che ce lo chiede, perché sono i bisogni primari a cui non si riusciamo più a rispondere che ce lo impongono, perché vorremmo tutelare il nostro tempo scegliendo il come il dove e con chi passarlo. Così per questo e tanti altri motivi scegliamo di tornare assieme nei campi.
E allora l’artista guarda la terra e pensa che non ci sia opera umana che la sovrasti e torna a giocare con essa per ritrovare nuova voglia di raccontare, così con lui l’intero gruppo e ogni occhio porta la sua visione del mondo che vorremmo fosse. Abbiamo ri-cominciato a studiare, a capire che la terra è ricchezza e che tornare a rispettare i suoi tempi e le sue voglie serve a migliorare la qualità della vita di tutti.
La comunità in questo ci sta accompagnando, le anziane del circolo ricreativo “La Gioia” che ospitiamo nella nostra struttura ci raccontano le ricette e i pasti poveri, i vecchi contadini che incontriamo ci insegnano l’arte del tempo e la devozione che bisogna avere, i vecchi proprietari ci affidano le terre e noi ingenui scendiamo nei campi.
Ma gli occhi continuano a correre veloci sui muretti e ci sono domande a cui non riuscivamo a dare risposta, tutto nella nostra terra è arso tutto è inondato di sole e vento, il paesaggio accompagna e asseconda la natura ed è qui che riscopriamo l’aridocoltura. Che non è una corrente di pensiero ne’ una vera e propria tecnica ma un principio cardine, la terra produce e dà vita se rispettata e con essa le colture e gli uomini saranno prosperosi.
Il nostro paesaggio la racconta, l’intero mediterraneo ne è testimone.
Arida è la terra, non i nostri sogni e le speranze basate però su concreti studi che ci confermano che la strada è quella giusta. La scarsità d’acqua, la desertificazione, l’aumento delle temperature, tutto ci porta a dire che la ricerca e la sperimentazione dell’aridocoltura è quello che ora serve non solo a noi ma a tutto il sistema. Così, partiti dai titanici ulivi, arriviamo ai Pomodori da Serbo, miracolo della natura che vivono per 10 mesi e ci sfamano da sempre, così la Penda diventa la nostra icona, rappresentante prima del nostro pensiero e il tempo ritorna ad essere più importante del denaro che capiamo solo ora essere nato per rappresentarlo.
Così il lavoro volontario che dura da 3 anni nel recupero di varietà resistenti allo stress idrico, è il nostro investimento economico sul futuro, su quel futuro che vogliamo riprenderci e raccontarvi.
E nei campi scopriamo che i contadini chiamano “Luca” per attirare il vento nelle ore calde di lavoro e che i pomodori si chiudono a penda in giornata o si perde l’appesa, che questo lavoro malgrado i sacrifici fatti, malgrado le levatacce e i doppi turni (perché anche noi bisogna campare), è il lavoro che tutti noi vogliamo fare, senza scordarcene nessuna parte o sfaccettatura.
Andare nei campi, lavorare e cantare, tornare ed avere in tavola piatti colorati e profumati, decidere poi di rilassarsi magari con una lettura collettiva o più semplicemente con due chiacchere nel nostro circolo.
E allora se siete curiosi non esitate a contattarli:
– Contattandoli sulla pagina F.B Club Gallery
– Inviando una mail a il clubgallery@gmail.com
– Chiamando al numero 3333480092, 3299873096.
– Vieni a trovarci ad Aradeo (Le) nella nostra sede,
Arci Club Gallery, P.tta Indipendenza 28
Ivan Illich scriveva:
“Il contadino che smette di tessere i suoi vestiti, di costruire la sua casa e fare i suoi strumenti, e torna consumatore di vestiti già fatti, cemento e trattori, già non potrà essere libero”. E loro hanno una gran voglia di libertà…