Con la primavera, i primi ortaggi ad arrivare sulle nostre tavole sono le fave. Piantate in novembre, giungono a maturazione proprio in questo periodo, svettando nei campi su altre giovani piantine che invece vanno ora a dimora, come ad esempio pomodori, zucchine, meloncelle e meloni.
La fava è uno dei legumi di più antico utilizzo nell’alimentazione umana, legato in molte civiltà persino alla sfera del sacro.
Da sempre, l’uomo ha affidato la trasmissione dei saperi a detti, proverbi o allegorie, in modo da tramandare gli apprendimenti che erano alla base delle conoscenze tecniche e della sopravvivenza stessa in un determinato ambiente. Tali ordinamenti e prescrizioni avevano il compito di assicurare che le conoscenze acquisite dall’esperienza umana non andassero perdute, svolgendo un ruolo pari a quello dei libri e della scrittura, in quelle fasce sociali che il più delle volte, non avendo accesso all’istruzione, non sapevano scrivere e leggere. Questo complesso di saperi veniva tramandato dunque tramite una trasmissione orale e non scritta.
Proviamo a fare un excursus del ciclo della fava, guidati dai proverbi e dai modi di dire propri del Salento.
Le fave si seminano in Novembre: “ci ole ccabba li ceddi pizzulanti, cchianta la fava de Tutti li Santi”; “Sam Martinu, fave e llinu”; “de Santu Linardu, chianta le fave, ca ggià è tardu”. Il primo proverbio afferma che se si vogliono eludere gli uccelli “pizzulanti”, cioè che si cibano delle fave messe in campo, bisogna seminarle il giorno di Ognissanti (1 novembre), questo probabilmente perché in quel periodo i volatili sono ancora attratti e sfamati dalle olive sui rami degli alberi. Il secondo prescrive di piantare fave e lino per la celebrazione di San Martino di Tours (11 novembre). Per rimarcare il concetto, il 6 novembre si incita a piantare le fave, già in ritardo rispetto al tempo più indicato.
Un mese dopo, l’8 dicembre per la precisione, la pianta della fava dovrebbe essere già germogliata e formata: “de la Mmaculata, mmar’a lla fava ca nu nn’è nata” cioè “povera quella pianta di fava che per la Madonna Immacolata non è ancora nata”.
In primavera si diceva: “la fava face la via e la mendula la ulìa”, poiché fave e mandorli, con le loro fioriture, sono i primi, tra le piante erbacee ed arboree, ad annunciare la stagione produttiva. D’altronde si dice pure “abbrile inche le fave e maggiu lu granu” (aprile riempie le fave e maggio riempie il grano).
Le fave soffrono dell’azione di avversità, infestanti e parassiti, ad esempio la “lupa” (nome dilettale delle orobanche), la “risina” (afidi) e le formiche, che possono mandare in fumo tutto il lavoro e gli sforzi del contadino. Un detto recita: “la lupa, la risina e la furmica, se mangiane le fave e la fatica”.
Legume importantissimo per l’alimentazione e l’economia della civiltà contadina, della fava, con le sue proteine e i suoi carboidrati, si diceva “la fava è mmenzu pane” cioè la fava è quasi come il pane; oppure “nu passa de la farmacia ci mangia fave ogne ddia” chi mangia fave in abbondanza non ha bisogno del dottore.
In provincia di Lecce esistono almeno due Madonne associate a questo prelibato legume: la “Madonna de li farauli” di Sternatia e la “Madonna della Favana” di Veglie.
Per quanto riguarda invece le cultivar, un altro detto svela una curiosità. Esso recita: “mangia osci, mangia crai, se spicciane le fave de Barletta” ed una sua variante nel brindisino dice: “s’hannu spicciatu li favi ti Barletta“, per indicare una cosa buona, un periodo felice oramai passato. Nella zona di Barletta si faceva gran produzione di questo legume; si potrebbe ipotizzare che tali detti prendano origine da varietà locali di particolare pregio.
