Quando ero bambina mi sembrava che il Natale non arrivasse mai…
Com’è che ci hai messo tanto? Chiedeva mia madre quando mi affidava qualche piccola commissione da svolgere fuori casa ed io tornando allungavo attraverso stradine profumate di zucchero e cannella, nell’inconsapevole ricerca di un percorso sensoriale volto a cogliere tutte le sfumature legate agli odori tipici dell’avvento che alleggerissero l’attesa del Natale.
A piccoli passi cercavo di catturare, attraverso il vapore sui vetri, figure di donne intente a passare le cartellate nel vincotto, a lavorare con lunghi cucchiai gli impasti in grandi ciotole di ceramica bianca, a far scivolare il matterello di legno sulla sfoglia di dolci e biscotti in stanze riscaldate dalla carbonella accesa nel braciere.
Aspettavo il profumo di arance, nespole d’inverno, mele granate, cachi e mandarini.
Esultavo quando tornando da scuola ne trovavo a tavola insieme alle prime frittelle accompagnate dalle cime di rapa che già mi piacevano tanto, e avvertivo l’odore pungente del muschio e dei rami di lentisco per il presepe poggiati in veranda.
I giorni che portavano al Natale non li contavo aprendo le finestre numerate di un calendario dell’avvento, ma li riconoscevo dal cambiare del tempo, dal nuovo odore dei giorni, dal buio che arrivava prima, dal vapore sui vetri, dalle nuvolette bianche che venivano fuori dalla bocca quando respiravo, dal vento freddo che mi faceva lacrimare gli occhi e dall’improvviso girare per casa del quaderno di ricette della nonna.
Era questo l’evento che più di altri mi rasserenava attraverso una serie di momenti dedicati alla preparazioni di un numero incredibile di dolci da regalare, offrire agli amici che venivano a porgere gli auguri, consumare in compagnia al termine dei pranzi o durante le lunghe tombolate in famiglia.
La nonna scriveva le sue ricette su un quaderno dalla copertina nera.
I fogli a righe di un bianco ingiallito, solcati dalla sua grafia minuta e perfetta sapevano di buono e raccontavano storie di torte, biscotti, deliziosi liquori di foglie dei amarene, marmellate di ogni frutto disponibile.
C’era poesia in quel dire di zucchero e farina, in quel parlare e non parlare di pesi e quantità e nell’affidare a “un senso di vaniglia” e “un sospiro di anice” la responsabilità di elaborare in maniera personale una ricetta.
C’era amore e rispetto nell’esortare a lavorare gli impasti “al meglio” o “tanto quanto si può” raccomandandosi di “aggiungere una delicata raschiatura di scorza di limone”, e ave-re l’accortezza di suggerire subito dopo che “il miglior modo di raschiarlo è con un pezzo di vetro sottile”, in un delicato invito a mettere nella preparazione dei cibi non solo le ma-ni, ma gli occhi, la testa, il cuore.
Ogni ricetta era elaborata dal gusto e dall’interpretazione delle donne che la realizzavano e pur nascendo dallo stesso quaderno, dava origine, in un’alternanza di sapori pieni, morbidi e incredibilmente profumati, a elaborazioni simili e mai uguali alla ricetta madre.
Nei pomeriggi che precedevano le vacanze di Natale era tutto un via vai di zie e cugine per casa, a organizzare le giornate di festa dalla vigilia all’Epifania, cercare nel quaderno della nonna le ricette dei dolci da realizzare, riunirsi a casa di una o dell’altra per prepararli occupando tutti i ripiani utili di cartellate, minuscoli taralli avvolti da una glassa invisibile di zucchero, panzerottini dolci ripieni di marmellata, porceddi e sasanelle ordinatamente al-lineate su grandi guantiere bianche di cartone tra le quali, un po’ aiutando, molto “assaggiando” mi aggiravo felice.
Le ricette contenute nel quaderno della nonna erano utili al Natale, alla Pasqua, a ricorrenze familiari importanti come battesimi, comunioni, matrimoni, e non c’è da meravigliarsi se si pensa che da noi, fino alla metà degli anni cinquanta e oltre, la maggior parte di questi eventi venivano festeggiati in casa.
Gattò ( traduzione molese di Gateau’), pan di spagna, bocche di dama, amaretti, bocconotti con la crema, bianco mangiare, sospiri, pastatelle, torrone, cartellate e zeppole di S. Giuseppe, taralli, panettoni di Natale, torte glassata al cioccolato, liquori e rosoli di ogni specie, marmellate, naspri e gelatine, affollavano dolcemente le pagine di quel quaderno in un paradiso di vaniglia, pepe garofano e cannella che ha deliziato l’olfatto e il gusto di uomini, donne e bambini nelle nostre feste di famiglia.
Quelle pagine sono state copiate innumerevoli volte, le sue ricette hanno traversato l’oceano quando le mie zie sono andate a vivere in America, contribuendo anche al successo di alcune attività commerciali avviate nella loro nuova terra.
Impastare chiacchierando, perdersi nella ripetizione di forme dolci, avvolgere delicatamente cartellate, sigillare taralli, farcire piccoli cestini smerlati di pasta frolla, preparare candide glasse leggere insieme alle persone che ami, sono tra le cose del Natale che sono andate perse, che mi mancano di più.
Oggi, nel tempo delle infinite ricette in internet, nell’ansia dell’individuazione al milligrammo di pesi e quantità, della descrizione asettica e precisa di procedimenti e tempi di cottura, le parole contenute in quel quaderno rappresentano un’oasi di affetto, serenità, saggezza, di libertà quasi, a testimoniare l’alta valenza affettiva, sociale ed educativa che i momenti di condivisione nella preparazione del cibo avevano un tempo.