Mangia, che ti fa bene…

Mangia, che ti fa bene, sollecitava pazientemente la nonna, mentre piccina, davanti a una minestra di zucca e fave con la buccia, facevo vagare con ostinata lentezza il mio cucchiaio per il fondo buio e denso del piatto, nell’impresa di allontanare tutti i pezzi di zucca dallo sgradito contatto con le fave dal nasello inquietante, e dai sospetti pezzi di aglio che lucevano, pallidi, sotto numerosi giri di olio.

Quella minestra proprio non riuscivo a mandarla giù. E non mi era nemmeno chiaro come potesse farmi tutto quel bene di cui era convinta la nonna, che, sicuro, pensavo mentisse spudoratamente per convincermi a mangiarne.

Quando ci penso mi rivedo, in un dipinto di contadini al desco, illuminata da una luce fioca, con gli occhi alla carta moschicida che pendeva dalla lampada, a cercare di contare quante mosche, volando volando, avvicinandosi alla luce, ne restassero imprigionate.

E guardandole, a spingere cautamente il piatto verso il centro del tavolo, nella speranza che qualche fortunata, nel tentativo di staccarsi, perdesse un’ala e vi precipitasse dentro, salvandomi da quella minestra.

Ma la carta moschicida era micidiale e quell’evento, mortificando le mie aspettative, non si verificava mai.

E anche se fosse accaduto, ripensandoci, non sono proprio certa che la nonna avrebbe passato, al cane o alle galline, il pasto non gradito.

La nonna avrebbe ripescato la povera mosca e il piatto sarebbe rimasto a tavola. Anche se in quel caso avrei potuto motivare il rifiuto di mangiarne e chiedere in sostituzione pane e formaggio…

Ma come facevo a confessare che non riuscivo a riempire quel cucchiaio perché mi facevano paura le fave? E che era a causa di quelle loro labbra sottili e ricurve che mi rendevano vivo e ghignante il legume che mi guardava dal piatto, che non mi decidevo a portarlo alla bocca?

Con gli occhi fissi sul piatto, mi limitavo a dirle: non mi piacciono!

E la nonna, a rispondere: ma se non le hai ancora assaggiate.

Ed io, a chiudere quel risicato scambio di parole: lo so e basta!

A quel punto, la nonna, con un gran sospiro, si convinceva ad eliminare le fave, che erano quelle che mi facevano meglio di tutto, ed io, sgocciolandoli per bene dal fondo di cottura, recuperavo tutti i pezzi di zucca e li mangiavo.

Sapevano di tegame di terracotta. Di olio e di aglio. E di fave.

E non erano niente male, ma io, nonostante cominciassi segretamente a familiarizzare con quel sapore, seguitavo a mangiare con lentezza accompagnata da aria di grande costrizione, per dimostrare, nonostante la rimozione del legume, tutto lo sforzo che mi costava accontentarla.

Così, piano piano, attraverso il sapore mediato e veicolato da quei pezzi di zucca, dopo aver contrattato l’eliminazione del nasello, ho imparato, crescendo, ad accettare il piatto completo e ad apprezzare quella solida e preziosa minestra.

E ho capito, a distanza di tempo, che la nonna non mentiva incitandomi a mangiare quel piatto di fave e zucca e che il suo convinto e affettuoso, mangia che ti fa bene, a qualunque alimento si riferisse, aglio, zucca o fave con la buccia, tutti prodotti della sua campagna, era convinto, sincero e consapevole.

La nonna curava amorevolmente i suoi campi mentre il nonno era in America e ci teneva particolarmente che mangiassi le fave perché, da brava contadina qual era, ne conosceva e apprezzava per esperienza, sia il sapore che tutte le proprietà benefiche.

Erano facili da coltivare e facevano bene al terreno, potevano essere gustate fresche e verdoline in primavera, dopo averle tirate fuori dalla buccia, da sole o accompagnate da pane e formaggio di pecora, e secche in inverno, con la buccia o senza, in zuppe e minestre saporite, cotte sotto la cenere o fritte.

La nonna non conosceva sicuramente termini quali azoto, sali minerali, acido folico, potassio, antiossidanti, steroli vegetali e fibre alimentari, né i nomi di tutti i minerali contenuti in quelle fave, e neanche da quanto tempo esistevano su questa terra e da dove arrivavano. Le bastava sapere che c’erano, ed erano ottime da cucinare e utili ad “andare di corpo” con regolarità, a mantenere bassa la pressione corporea e, ricche di ferro com’erano, a curare le anemie. Cosa si poteva volere di più da una fava?

Ogni bravo contadino, all’epoca, aveva dentro di sé un navigato farmacista naturale, esperto non in cosa contenessero determinati cibi o erbe, ma per cosa fossero utili, a curare o a prevenire.

E la nonna era una buona contadina.

E il suo mangia, che ti fa bene, ci stava proprio tutto.

Ma chissà cosa avrebbe pensato, se in un momento di fantasiosa premonizione infantile, con il piatto davanti, le avessi svelato che quelle fave avrebbero percorso tanta strada, e a 50 anni di distanza sarebbero arrivate in alto, ma molto più in alto di qualsiasi altro legume contemplato nelle favole.

Perché una principessa coraggiosa e determinata avrebbe viaggiato tra stelle, pianeti e buchi neri, e all’interno di un castello volante costruito con fibre di acciaio delle più forti, si sarebbe mossa tranquilla e attenta nello spazio silenzioso, portandosi dietro fagioli, lenticchie, fave e ceci neri, a conferma delle sue sane abitudini alimentari e del fatto che, nelle favole, tra principesse e legumi c’è sempre stato un certo feeling.

La nonna mi avrebbe ascoltata con la sua santa pazienza e pur non essendo in grado di cogliere l’opportunità scientifica di tale rivelazione, avrebbe approfittato dell’utilità immediata della mia fantasia, e sull’orlo dell’esasperazione avrebbe concluso: Hai visto?

Se l’è portate perché fanno bene!

Quindi, smettila di fare tutte queste mosse, e mangia!

La nonna metteva a “bagno “, le fave, in abbondante acqua, la sera.

Il mattino successivo le passava, dentro “u’ pignatidd”, che sistemava in un angolo del camino destinato alla cucina, con foglie di alloro, grani di pepe e acqua.

Quindi tagliava dalla parte centrale di una grossa cipolla una fetta bella alta e la sistemava sulla bocca del tegame.

Non mi sono mai chiesta se lo facesse per sostituire un coperchio andato in pezzi, oppure per approfittare del vapore e cuocere anche la cipolla, che poi mangiava a parte, condita con olio e sale.

Ogni tanto andava a controllare la cottura e, aggiungeva, se necessario, altra acqua calda, che teneva di riserva, in un pentolino. Poco prima che arrivassero a cottura regolava di sale.

Nel frattempo cuoceva la zucca, tagliata a pezzi non troppo piccoli, e la teneva da parte, in un piatto coperto da un altro piatto, sotto un telo.

Pronte le fave, le tirava fuori dall’acqua e le aggiungeva alla zucca, aggiustava di sale, se necessario, e completava il tutto con uno spicchio d’aglio a piccoli pezzi e un generoso giro d’olio di oliva.

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