«Mangia. Mange! Mu i scé a peghie a checchiere pe scattesce». (Ora andrò a prendere il cucchiaio per battere – per la lettura: e = e muta; é = e sonora; e = e muta su cui cade l’accento della parola)
E se non mangiavo, mia madre lo prendeva davvero il cucchiaio di legno. Lo metteva accanto al suo piatto, lo stringeva forte con la mano destra, e di lì a poco ripeteva: «Mange, mange!».
E tac, la prima “scattisciata” sulla mia mano sinistra.
Ed io mangiavo.
Essere figlio di contadini comporta(va) anche questo: praticamente ogni giorno, a tavola c’è (c’era) sempre almeno un prodotto della (tua) terra.
Da dicembre a marzo, nel pieno della produzione del carciofo, carciofi a volontà a casa, soprattutto quelli che rappresentavano lo scarto, che non venivano venduti, e li mangiavamo per primo e/o secondo. Alessandro Suma, nel libro A tavola con i carciofi (Schena editore) ha riportato 170 ricette a base di carciofo: le ho mangiate tutte, cotte e crude, a pranzo e a cena quando avanzavano.
Nel periodo delle patate (da noi ci sono almeno due cicli di patate in un anno), patate a volontà, che mio padre si ostina ancora oggi a conservare nel garage con l’idrazide maleica. Quanto odiavo la pasta con sugo a base di salsa di pomodori e le patate.
« Mange!»
E tac la seconda “scattisciata”.
