D’estate, a volte, dormivo in campagna dalla nonna.
Ricordo una torre, con un pergolato davanti, e all’interno pochi mobili tra cui, dietro una tenda, un grande letto in ferro con a capo una tela raffigurante la Madonna del rosario.
Una di quelle notti, era agosto e faceva un caldo tremendo, presa da una sete fortissima mi svegliai e chiesi dell’acqua.
La nonna si alzò e tornò con un bicchiere dal vetro spesso, che svuotai in un niente.
Dopo un po’ avevo più sete di prima, e tornai a chiedere altra acqua.
La nonna si rialzò e tornò con il bicchiere pieno che anche questa volta bevvi in un fiato.
Neanche il tempo di poggiarlo sul comodino che già chiamavo per la terza volta.
«Dormi, che devo alzarmi presto domattina, altrimenti le galline fanno le uova e se le mangiano tutte», mi tacitò decisa, spegnendo la luce e rimettendosi a dormire.
Chiusi gli occhi e non parlai più.
Ero avvolta dall’arsura e da una strana nausea che mi prendeva la gola.
Piano piano riaprii gli occhi e alla piccola luce di un lumino che si muoveva lentamente davanti all’immagine sacra, guardando il soffitto, cominciai a riflettere su quella strage di uova che la mia sete infinita avrebbe potuto provocare.
Appena sveglia la nonna procedeva alla raccolta delle uova, e se le pareva che ne mancasse qualcuna tornava a controllare dopo un po’ prima che a qualche gallina ritardataria si affacciasse nella testolina pennuta l’insano pensiero di mangiare l’uovo appena deposto.
Spesso aiutavo la nonna a cercare le uova nei posti più strani e quando ne vedevo qualcuno di poco accessibile, tipo l’incavo di un albero o una buca nascosta da un cespuglio, facevo finta di non vederlo e lo lasciavo alla gallina, che normalmente lo abbandonava alla ventura per giorni fino a che Rocky, il cane, lo trovava, ci giocava, e quando l’uovo si rompeva, lo mangiava con tutto il guscio.
Io parteggiavo per le galline, e trovavo giusto e naturale che fossero libere di mangiare le proprie uova.
La nonna, dal canto suo, che aveva acquistato le galline, ed era convinta, per lo stesso motivo di appartenenza, di avere su di loro potere di vita e di morte, considerava l’uovo, per una proprietà transitiva consolidata nei secoli, nella sua esclusiva disponibilità.
Facevamo uscire le galline di prima mattina, e all’imbrunire, chiamandole per nome accompagnato da un continuo pio-pio-pio, verso ufficiale delle galline, le mettevamo al riparo per la notte nel pollaio, dal pericoloso vagabondare di volpi e altri animali gallinai.
Il pollaio era stato costruito utilizzando i vecchi pali di legno che sostenevano i tralci d‘uva nella vigna e la rete in ferro di un letto in disuso.
La nonna vi aveva messo dentro anche un gallo, che ci faceva da sveglia ogni mattina alle 5 precise, e non si guastava mai.
Altro compito del gallo, secondo la versione ufficiale propinata ai minori e sostenuta da tutto il parentado, era quello di beccare le uova delle galline per trasformare i tuorli in pulcini.
Ma la trasformazione non era immediata e la gallina a cui aveva beccato l’uovo, doveva covarlo a lungo, tenendolo al caldo e al riparo.
Ancora le rivedo, col capino abbassato sul collo, accovacciate pazientemente sull’uovo, mentre le altre scorrazzavano chioccianti per la campagna.
Ogni tanto riuscivo a prenderne qualcuna, e tenendola stretta per le ali, come mi aveva insegnato la nonna, potevo accarezzarne le piume morbide, osservarne gli occhietti a spillo sempre un po’ diffidenti, e saggiarne il peso, elemento fondamentale per capire come facessero a non rompere le uova che covavano.
La nonna amava le sue galline, ma a volte, per qualcuno che amava ancora di più, tirava il collo a qualcuna di loro, ne versava il sangue in un tegamino di alluminio, lo friggeva fino a quando diventava un po’ scuro e rappreso e, ancora fumante, lo dava a mio padre, che lo mangiava con gusto, davanti ad una suocera soddisfatta e ad una bimba interdetta da quel rito mattutino, singolare e sanguinario.
Il sangue di quei poveri pennuti doveva contenere incredibili poteri e sicuramente un grande valore nutritivo e ricostituente, se nonna Rosa decideva di celebrare quel sacrificio sull’altare del benessere di mio padre.
Dei poveri resti della gallina, scrupolosamente spiumata e messa in pentola, in brodo, o ripiena al sugo, invece, godevamo un po’ tutti.
Sempre a mio padre andava il primo uovo fresco della giornata. E quello sì, che per me era un evento fantastico.
Crudo, bucato il guscio con un grosso ago dai capi, veniva aspirato da uno dei fori, e ingoiato intero, con un grosso “plop”.
Quel plop estrattore di tuorlo mi affascinava per la sua incredibilità e mi faceva ammirare mio padre per la sua destrezza.
Nonna Rosa aveva grande cura delle sue galline, e dava un nome a tutte, ma se poi dovevano fare quella fine, pensavo, sarebbe stato meglio non dargli alcun nome.
Il ragionare sulla questione etica non mi aveva aiutato granché a prendere sonno.
Fu solo quando cominciarono a passarmi per la mente i nomi di tutte le galline che avevo conosciuto che piano piano, finalmente, mi addormentai.
Il mattino successivo, quando la nonna si accinse a lavare il grosso bicchiere utilizzato la notte prima, si accorse che al posto dell’acqua avevo bevuto olio di oliva.
La poverina era talmente mortificata che non si convinceva di aver potuto confondere le due bottiglie vicine, e guardandomi con una certa apprensione, tentava di giustificarsi con mia madre:
«È un mistero…», le ripeteva a bassa voce, mentre le raccontava il fatto cercando di non farsi sentire da me.
Per me il mistero rimaneva, invece, come fossi riuscita a berlo, senza patire alcuna conseguenza, tutto quell’olio.
Ma le mie giornate di bambina, erano sempre piene di misteri irrisolti.
Fortunatamente.