Presso il Dipartimento di Scienze Agro-Ambientali e Territoriali dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro sono state effettuate analisi qualitativo-nutrizionali ed indagini storico-bibliografiche sulle cime di fava (Vicia faba L.), ossia gli apici della pianta di fava che si ottengono a seguito del processo di cimatura.
La cimatura delle fave è un’operazione colturale antica, così come si evince in un testo del 1831, scritto da Gian Battista Margaroli, intitolato “Manuale dell’abitatore di campagna e della buon castalda” (Margaroli, 1831). Nel capitolo IV dedicato alle leguminose, l’Autore riporta la seguente descrizione: «… la fava grossa, è quella che si coltiva maggiormente negli orti. (…) Questo genere soffre anche d’assai la caldura nelle giornate soffocanti, e va inoltre sottoposto ad essere divorato dagli afidi o gorgoglioni, insetti che vivono in società, e che i contadini chiamano pedocchi. Essi si attaccano per lo più alla cime delle piante da dove estraendo i sughi nutritivi, fanno sì che intischiano e muojano pur anche. In questo caso è bene di tagliare le fave delle piante medesime su cui è attaccato questo insetto micidiale. Ma cade qui in acconcio di osservare che il taglio delle cime di tale pianta che si pratica in alcuni paesi, senza questo o altro titolo, non è che dannoso alla medesima. La cima riesce in ogni terreno, ma più di tutto nelle terre grasse, forti nere, cretose e volpine, e esige una stagione né troppo piovosa, né troppo asciutta» (pagina 152).
L’autore così fornisce utili indicazioni, frutto dell’esperienza contadina, evidenziando sia il problema degli afidi sulle piante di fava, sia i possibili effetti collaterali a seguito della cimatura effettuata in modo non corretto.
Sulla base delle potenzialità gastronomiche, le caratteristiche nutrizionali delle cime di fava, analizzate grazie al progetto BiodiverSO, sono state confrontate con quelle dello spinacio (Spinacia oleracea L.), poiché entrambi i prodotti presentano similitudini nell’utilizzo alimentare, oltre ad alcune somiglianze organolettiche e morfologiche.
Tuttavia, dai primi risultati delle analisi qualitativo-nutrizionali si evince che tra i due prodotti orticoli ci sono sensibili differenze, soprattutto per quanto concerne il contenuto di sostanza secca, essenzialmente a causa della maggiore concentrazione di proteine e carboidrati nelle cime di fava rispetto agli spinaci.
Sensibili differenze si riscontrano anche per quanto riguarda il contenuto di elementi minerali, che invece risulta inferiore nelle cime di fava. In particolar modo, il contenuto di calcio è più basso di circa il 30%, quello del sodio è più basso di circa tre volte, mentre potassio e magnesio presentano valori pari a circa la metà.
In base a questi risultati si evince che le cime di fava potrebbero essere considerate un’ottima alternativa agli spinaci, soprattutto per quei soggetti a cui è richiesto di limitare l’apporto di potassio con la dieta.
Inoltre, le cime di fava sarebbero da preferire in tutti i casi connessi a rischi di calcolosi, per il più basso contenuto di calcio e, soprattutto, per il fatto che la fava, a differenza dello spinacio, non afferisce alla famiglia delle Chenopodiaceae. È noto, infatti, che gli ortaggi afferenti a questa famiglia botanica presentano generalmente un elevato contenuto di ossalati, ossia i sali di cui sono formati i calcoli renali.

Riferimenti bibliografici:
Margaroli G.B., 1831. Manuale dell’abitatore di campagna e della buon castalda. Luigi Nervetti Tipografo-Libraio, Milano.