Sono nata al n° 65 di via Gian Battista Vico, una stradina di Mola situata a pochi metri da un antico forno, di quelli grandi come una grotta, che andavano a legna, e che nelle “ricorrenze solenni”, inclusa la domenica, inondavano tutte le case del vicolo di profumi sublimi e indimenticabili.
Seduta sul gradino di casa guardavo il garzone del fornaio, instancabile, sulla sua bicicletta, con in testa una ciambella di stracci arrotolati, utile a mantenere in equilibrio un asse di legno della larghezza di 30-40 cm andare di casa in casa a prelevare focacce scintillanti di olio, teglie di biscotti per la colazione dal forte sentore di ammoniaca per dolci, pizze rustiche (“scalcioni”, italianizzati “calzoni”) farciti di “sponsali”, le cipolle lunghe locali, scarcelle decorate con uova e confettini colorati, cartellate e sontuosi taralli da fiaba ricoperti di glassa candida e spumosa.
Tutti quei dolci venivano preparati dalle donne di famiglia e vicine di casa, sulla base di ricette che si perdevano nei secoli tra chiacchiere e confidenze, consigli di vita per le più giovani e rimbrotti continui per i più piccoli.
A volte, per intercessione di qualche cugina più generosa, anche noi bambini, bardati di grandi grembiali che ci avvolgevano due volte e raggiungevano i piedi, potevamo aiutare a preparare quei dolci, occupandoci di attività leggere come far cadere a pioggia i confettini colorati sulle scarcelle, cospargere di zucchero semolato i biscotti da latte, sistemare con cura e grazia (così si raccomandava mia madre) i pomodori a pezzetti sulla focaccia.
Appena le teglie erano piene scendevo per le scale e seduta sul gradino del portone aspettavo che arrivassero a prenderle per portarle al forno.
La stradina scendeva ripida verso la piazza, e il ragazzo del fornaio arrancava faticosamente in salita, ma, una volta sistemate in equilibrio abbastanza precario le nostre teglie di ferro sull’asse di legno, si lanciava leggero in una rapida discesa verso il forno, procurandomi un’ansia fastidiosa per il destino di quei dolci che temevo veder rotolare per la strada, davanti a un fornaio sconsolato e urlante.
Sullo stesso gradino, come una piccola e attenta sentinella, continuavo ad aspettare il ragazzo che, dopo un’ora abbondante, tornava avvolto dalla fragranza di dolci e focacce ancora caldi, e veniva ricompensato con laute mance e sorrisi dalle massaie soddisfatte e rasserenate per aver riavuto cotte adeguatamente le profumate le bontà preparate.
Non facevo in tempo a scrollarmi di dosso l’ansia per la discesa, che una battuta scherzosa lanciata al garzone me ne faceva nascere un’altra: ci avevano riportato la nostra focaccia? Quei dolci che nella cottura avevano perso un po’ la forma originaria erano proprio i nostri?
Il dubbio nasceva spontaneo in quanto i recipienti di cottura erano tutti uguali tra loro per forma e materiale: semplici “tondi” o rettangoli di ferro dal bordo di 3-4 dita, a volte scanalato, che prima dell’uso venivano portati dal fornaio per subire una bruciatura a calore molto alto al fine di preparare e garantire un fondo che non facesse attaccare i cibi durante la cottura.
Di solito il fornaio, all’arrivo delle teglie, segnava sul bordo esterno, con un gesso bianco, i cognomi e a volte i soprannomi delle famiglie di provenienza. Le massaie, dal canto loro, provvedevano, dove possibile, ad autografare per mezzo di iniziali realizzate con parte dell’impasto i loro prodotti o a distinguerli per mezzo di un contrassegno realizzato con parte della “massa”. Il nostro rappresentava un piccolo fiore.
Avevo appena compiuto otto anni che abbiamo lasciato la casa vicina al forno per trasferirci in un appartamento più comodo, dall’altro lato del paese, dotato di cucina con forno.
L’ansia dell’attesa si era placata, dolci e focacce, a turno, potevamo cuocerli in casa, ma era sparita la magia di tutti quei profumi nell’aria, di quel magico dispensatore di bontà olfattive confuse e suadenti che era “U Fornsaun”, termine dialettale per indicare i nostri antichi forni, il gradino che mi immergeva, piccolina, nella vita sociale di quella stradina, le voci che sfuggivano per le finestre e continuavano a chiacchierare nel vento, il ragazzo del fornaio che pedalava su e giù cantando.
Solo un grande, irreale silenzio. E un profumo per volta, o era focaccia o erano dolci, che chiuso all’interno di una casa non aveva più lo stesso sapore.
Sparito per sempre il profumo del pane appena cotto e le vocianti vicine di casa a parte una, Memena, che imperterrita e fedele ci seguiva nei vari spostamenti.
Memena era diventata una certezza nella nostra famiglia, un punto fermo delle nostre relazioni sociali, un ponte solido e sicuro tra il vecchio e il nuovo.
Durante la settimana continuava a passare dalla nuova casa, offrendo aiuto, con il solito garbo, in cambio di compagnia e della possibilità di trascorrere del tempo sereno fuori da una casa piena di problemi.
La cosa bella di Memena era che annunciava sempre con tale semplicità disarmante le sue proposte di aiuto, che nessuna donna della famiglia, zie e cugine, per affetto e rispetto, anche se in quel momento impegnata a fare altro, rifiutava.
Riconoscevi la suonata e appena nelle scale ti raggiungeva la sua voce amiccante, “Cecchina, cum’ st’, a’ma f’do recchietedd? Ca sop i seggie agghie vest i preim cem d’ r’pe…”.
Ti allettava così, certa di fare cosa gradita.
Noi piccoli adoravamo Memena, perchè a differenza degli altri adulti era sempre propensa a farsi aiutare, facendoci pasticciare tranquillamente, senza perdere mai la pazienza.
La rivedo, china sul tavoliere di legno, i capelli raccolti in un turbante di lana che lei stessa aveva lavorato ai ferri, immersa nella realizzazione di centinaia di minuscole orecchiette, perfettamente uguali, di bocconotti ripieni di marmellata di uva e pasta reale, o di “occhi di Santa Lucia”, taralli molto piccoli, che le mie dita di bambina riuscivano a chiudere alla perfezione, senza rovinarli.
Era consuetudine realizzare questi dolci il 13 dicembre, in occasione della ricorrenza di Santa Lucia, protettrice delle malattie agli occhi.
Preparato l’impasto si realizzavano dei tarallini della circonferenza di un dito mignolo, che venivano prima passati in forno e poi immersi nel “giuleppe”, un miscuglio di acqua, zucchero e profumo di limone, che li rendeva candidi aumentandone la fragranza.
Il lavoro era lungo e laborioso, ma se ben riusciti, ti ringraziavano sciogliendosi dolcemente in bocca, in un incredibile gusto delicato e leggero, profumato lievemente di scorza di limone.
A volte capitava, non avendo in casa gli ingredienti disponibili per le ricette proposte da Memena, di condividere anche solo chiacchiere e caffè, di cui lei era molto ghiotta.
Un caldo, dolcissimo caffè che gustava felicemente, lontana dai problemi di casa e serena, con almeno sei cucchiaini di zucchero e tutto il nostro affetto.

Ottimo racconto,mi sembra si sentire il profumo del pane e del caffè!
Grazie Mario!
Capita anche a me, ogni volta che chiudo gli occhi e ci penso…